I popoli indigeni, i custodi migliori per la natura

I popoli indigeni, i custodi migliori per la natura

31 Marzo 2021 0 Di Anna

Nel mondo in cui viviamo il clima cambia, e con il clima cambia la natura, che cerca di adattarsi e sopravvivere. Le piante cambiano le loro caratteristiche, gli animali le loro abitudini. Ad accorgersene per primo è chi vive a stretto contatto con loro. Non io, non tu, nemmeno i fortunati tra noi che vivono in luoghi più “naturali” rispetto alle città, come la campagna o la montagna.
Parliamo di una natura più lontana, selvaggia e incontaminata. E dei popoli che ci vivono dentro…

Bambini indigeni che fanno il bagno nel Rio delle Amazzoni, in Brasile

Esatto, si tratta dei popoli indigeni, che vuol dire proprio “originari dei luoghi in cui vivono”: popoli che sono lì da tantissimo tempo, da prima di chiunque altro. Questi popoli conoscono in modo profondo la loro terra, non come un medico con il suo paziente, ma come un genitore con il proprio figlio e, allo stesso tempo, come un figlio con il proprio genitore. È un mix: da un lato ci sono la conoscenza e il rispetto nel modo in cui usano le risorse naturali per la propria sopravvivenza, e dall’altro c’è un legame fortissimo, come quello che lega le persone della stessa famiglia. È armonia!

Il legame è così stretto che gli indigeni soffrono senza la loro terra, ma anche la loro terra soffre senza di loro. Questi popoli infatti hanno un ruolo importante di custodi della natura, ed è ora che gli venga riconosciuto.
È quello che è successo la settimana scorsa in Australia, dove i migliori scienziati del clima del Paese hanno fatto una grande riunione con 120 capi di popolazioni indigene australiane. L’obiettivo? Confrontarsi, mettere in comune i saperi, cercare strategie efficaci per proteggere la loro bellissima terra. E, perché no, dare l’esempio al resto del mondo.

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L’Australia, una terra fortemente colpita dai cambiamenti climatici

Il succiamiele del reggente

Ondate di calore che seccano la vegetazione, incendi sempre più vasti, temperature degli oceani in aumento: gli effetti del riscaldamento globale, in Australia, si fanno sentire in modo molto forte, come ci ha raccontato bene Pier nel suo articolo sui koala in pericolo (ma vedi anche Agenda 2030, Obiettivi 13, 14 e 15).
Ma non ci sono solo i koala. Prendiamo gli uccelli per esempio. Molte specie per sopravvivere hanno cambiato le rotte migratorie che percorrevano da millenni. Altri sono diventati protagonisti di storie davvero tristi, come il succiamiele del reggente, che non riesce più a cantare. Una volta questo uccello era diffusissimo nell’Australia sudorientale; oggi però ne sono rimasti pochi esemplari, e questi pochi sono dispersi in un’area troppo vasta, tanto che i giovani non trovano più gli anziani da cui imparavano il canto per corteggiare le femmine. Perduti i loro maestri, i succiamiele imparano melodie di altri uccelli, che però non conquistano le femmine della loro specie, e questo li sta portando all’estinzione.

L’assemblea nazionale dei popoli indigeni sul clima

Aborigeni che suonano il didgeridoo, uno strumento a fiato che accompagna i loro canti ancestrali

Di tutti questi piccoli cambiamenti si accorgono innanzitutto gli indigeni – in Australia si chiamano aborigeni, ma il significato è lo stesso, e sono circa 500 popoli diversi –, i quali seguono i ritmi della natura, basano su di essa i loro calendari, così come i canti che di generazione in generazione tramandano la loro identità.
L’assemblea tra scienziati e aborigeni di cui abbiamo parlato, che si è svolta nella città di Cairns, ha finalmente riconosciuto loro il ruolo di esperti e ha affermato in modo chiaro che bisogna imparare gli uni dagli altri (vedi anche Agenda 2030, Obiettivo 17). Ed ecco la prima collabor-azione: i Malgana, un popolo dell’Australia occidentale, hanno iniziato a piantare nelle acque della baia degli Squali delle piante marine che assorbono anidride carbonica per contrastare l’acidificazione delle acque che per esempio fa sbiancare (e morire) i coralli (vedi Agenda 2030, Obiettivo 14). I Malgana non conoscevano queste piante in particolare, ma sono i più adatti a portare a termine la missione.

La baia degli Squali (Shark Bay, in inglese), in Australia occidentale

Gli indigeni e la biodiversità

I popoli indigeni rappresentano il 5% della popolazione mondiale – circa 370 milioni di persone su 7,5 miliardi – ma nei territori da loro abitati si trova un numero altissimo di specie viventi diverse perché si tratta dei luoghi più incontaminati del pianeta. Gli studiosi ci dicono infatti che gli indigeni custodiscono l’80% della biodiversità terrestre.
Dove ci sono loro a plasmare, ad alimentare e a difendere la natura, la biodiversità si conserva meglio. Anche meglio che nelle cosiddette riserve da cui spesso vengono “sfrattati”, cioè allontanati, per lasciare la natura del tutto libera dalla presenza umana. Dove ci sono loro a difendere il territorio, per esempio, la perdita di foreste si dimezza.

Dalle parole ai fatti

Questo ruolo di custodi della natura va riconosciuto e anche pagato. Bisogna ascoltare la loro voce e riconoscere finalmente i loro diritti umani e territoriali, cioè legati al possesso delle terre che abitano da sempre. E non ultimo bisogna sostenere la loro azione.
Le parole esistono già, sono contenute nella Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni (2007), la quale tra i suoi presupposti riconosce che:

il rispetto dei saperi, delle culture e delle pratiche tradizionali indigene contribuisce allo sviluppo equo e sostenibile e alla corretta gestione dell’ambiente”.

Quello che troppo spesso manca è la loro applicazione concreta, tanto che tuttora i popoli indigeni sono tra i gruppi umani più svantaggiati e meno tutelati al mondo.

I popoli indigeni nel mondo

Ci sono gli Yanomani della foresta amazzonica, che conoscono e usano tutti i giorni circa 500 tipi di piante: per mangiare, per costruire, per fabbricare utensili, per curarsi, per dipingersi il corpo. Ci sono i Sami dell’Artico, pastori di renne semi-nomadi che seguono le migrazioni di questi animali, e i pigmei Baka dell’Africa centrale, che hanno più di 15 parole per chiamare gli elefanti, a seconda dell’età, del sesso e persino del loro carattere.
Ci sono gli Jumma del Bangladesh, che coltivano la terra a rotazione, cioè cambiando il tipo di sementi nel tempo, per permetterle di rigenerarsi; i Dongria Kondh dell’India, protettori dei torrenti che nascono dalle rocce delle loro colline; i Kombai di Papua Nuova Guinea, che usano tossine naturali per stordire momentaneamente i pesci e pescare solo gli esemplari adulti.
I popoli indigeni differiscono molto gli uni dagli altri, hanno stili di vita completamente diversi e sono custodi di un’incredibile varietà di ambienti. Oltre un centinaio di popoli non sono mai venuti in contatto con quella che chiamiamo “civiltà”.
Alcuni vivono di caccia, pesca e raccolta; altri di agricoltura e allevamento. Ma quello che li accomuna tutti è la conoscenza della propria terra e una capacità unica nel gestirla, perché non la considerano un giacimento da cui estrarre risorse per arricchirsi, ma il luogo che dà loro il necessario per vivere e che devono lasciare intatta alle prossime generazioni. Ti ricorda qualcosa?
Come recita un proverbio africano:

“Noi non ereditiamo la terra dai nostri genitori, ma la prendiamo in prestito dai nostri figli”.

Un accampamento sami al Polo Nord

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