Liliana Segre e il Memoriale della Shoah di Milano

Liliana Segre e il Memoriale della Shoah di Milano

19 Gennaio 2022 7 Di Pier

Care Ventitrentiane e cari Ventitrentiani, vi siete mai chiesti come funziona la nostra memoria?

A me è capitato di domandarmelo domenica scorsa, quando sono andato a visitare il Memoriale della Shoah, sotto la Stazione Centrale di Milano. Ho deciso di farlo perché, come saprete, la prossima settimana, il 27 gennaio, si celebrerà come ogni anno il Giorno della Memoria (Giorgia ci aveva spiegato di cosa si tratta in questo articolo). Così, visto che a causa del Coronavirus siamo ancora costretti a muoverci il meno possibile, ho deciso di accompagnarvi in un giro “virtuale” di questo posto, nella speranza che un giorno tutti quanti possiate visitarlo dal vivo.

L’ingresso del Memoriale della Shoah, sul fianco della Stazione Centrale di Milano (© Shutterstock).

Proprio mentre ero lì, e ascoltavo la guida raccontarmi della Shoah (la “tempesta devastante”) che spazzò via milioni di ebrei durante la Seconda guerra mondiale, ecco che mi sono ritrovato a chiedermi: ma come funziona la nostra memoria?

E quel luogo, improvvisamente, mi ha risposto. Sì, non sono impazzito, è stato proprio quel luogo a parlarmi. E se avrete la pazienza di seguirmi (sarà un articolo un po’ più lungo del solito, vi avviso), vi svelerò che cosa mi ha detto e vi farò conoscere la storia di una donna straordinaria: Liliana Segre.

ALLA RICERCA DELLE RADICI DELLA MEMORIA

Il Muro dell’Indifferenza

Sono arrivato presto, domenica mattina, e la mia guida, un giovanissimo volontario, era già lì che mi aspettava all’ingresso. Eh sì. Perché era importante che io capissi fin da subito due cose.

Un memoriale è più di un museo

La prima è che quello che stavo per visitare non è un museo, ma un memoriale. “E che differenza c’è?” vi chiederete voi. Semplice. Nei musei sono conservati dei reperti che non sono direttamente collegati al luogo in cui si trovano. Per esempio, è evidente che nel Museo Egizio di Torino si trovano oggetti dell’Antico Egitto, ma che a Torino, e in particolare dentro il museo, gli Egizi non ci hanno mai vissuto. Mentre un memoriale è un posto che è direttamente collegato agli eventi che cerca di ricordare. E in particolare quello in cui stavo per entrare ha a che fare con la storia della Shoa.

Il nome corretto di questa tragedia è Shoah

Ed ecco la seconda cosa che dovevo sapere dall’inizio. Nonostante si utilizzi spesso la parola Olocausto, per riferirsi a questa tragedia è preferibile usare Shoah, perché la prima, che viene dal greco antico, in origine indicava i sacrifici rituali di animali che venivano fatti per gli Dei. Ma è chiaro che l’uccisione degli ebrei non può e non deve essere considerata un sacrificio, perché non lo è.

La guida mi ha detto queste cose di fronte a un muro su cui era scritta a caratteri giganti la parola INDIFFERENZA.

Il Muro dell’Indifferenza

È la prima installazione (una specie di opera d’arte) che si incontra in questo luogo. Quella parola è lì come una sorta di rimprovero iniziale, come la “sgridata” di una mamma. Ci urla dritto in faccia che la Shoah è stata possibile solo grazie a questo: l’enorme INDIFFERENZA di grande parte del mondo di fronte a quello che stava succedendo. Perché la morte di milioni di ebrei non si è consumata in un attimo, non è durata un secondo. È stata preparata e portata a termine nel corso di diversi anni. E solo in pochi, in pochissimi, hanno cercato di fermarla. L’indifferenza è stato l’atteggiamento della maggioranza delle persone. Per questo Liliana Segre, la donna di cui vi parlerò più avanti, l’ha scelta come parola da piazzare all’ingresso. Passando dietro a quel muro, i visitatori diventano invisibili proprio come lo diventarono gli ebrei durante la Shoah.

L’Osservatorio e le Stanze delle Testimonianze

L’Osservatorio

Ma dov’è che stavo entrando? Mi ha aiutato a capirlo la seconda installazione: l’Osservatorio. È una sorta di tunnel in fondo al quale viene proiettato un filmato del 1930 che racconta a cosa serviva questo luogo originariamente. All’inizio, infatti, il piano sotterraneo della Stazione Centrale era il magazzino di carico e scarico della posta e delle merci in partenza sui treni da Milano. Solo nel settembre 1943 fu requisito dai nazisti, che lo utilizzarono fino al 1945 come luogo di formazione dei treni speciali diretti ai campi di transito, di concentramento e di sterminio.

La passerella sul nulla

La passerella che conduce verso lo schermo fa provare la stessa sensazione percepita dai deportati: lo spazio ti si chiude intorno, diventa tutto più scuro, e ti sembra di muoverti verso una destinazione sconosciuta. Questa impressione è aumentata dal fatto che una volta arrivato in fondo, ti trovi di fronte a un sistema di lenti che, invece di migliorare la visione del film, rende tutto sfocato. La Shoah fu possibile anche per questo: la mancanza di informazioni chiare e la diffusione di notizie false che condannarono gli ebrei a un destino che neppure loro conoscevano.

Questa cosa la si capisce bene ascoltando i racconti dei sopravvissuti nelle Stanze delle Testimonianze lì vicino: non solo il mondo era all’oscuro, ma neppure loro sapevano a cosa andavano incontro salendo su quei treni che vengono ricordati dall’aiuola di pietre sotto la passerella, simile ai sassi tra le traversine dei binari.

La banchina delle deportazioni

Eh sì, ragazze e ragazzi, avete capito bene. È proprio questo che succedeva qui. Per quasi quindici anni (dal 1930 al 1943) quello era stato il luogo di smistamento delle merci e della posta. Poi, con lo stesso identico procedimento, era diventato il luogo in cui i vagoni merci venivano caricati di esseri umani. E i nazisti lo avevano scelto proprio per questo! Perché era al piano di sotto, lontano dalla vista dei passeggeri comuni che si spostavano tra i binari al piano superiore e non si accorgevano di niente.

Il funzionamento “perfetto” di questa strategia lo si capisce con un brivido lungo la schiena quando si arriva alla banchina delle deportazioni.

I vagoni bestiame utilizzati per il trasporto dei deportati

Qui ci sono ancora 4 dei vagoni bestiame che, invece di essere utilizzati per gli animali, erano usati per caricarci gli ebrei e i deportati politici che si erano opposti al regime. Su ciascun carro venivano ammassate tra le 40 e le 80 persone, che avrebbero viaggiato per giorni in piedi dentro questi cassoni senza sedili né bagni né finestrini, e che erano chiusi con un lucchetto dall’esterno.

Il carrello traslatore e l’ascensore montavagoni

Ma come facevano questi vagoni a raggiungere il livello dei binari per poter partire? Lì vicino c’era un carrello traslatore che serviva per spostare i carri su un ascensore montavagoni, e questo li sollevava fino al piano superiore, all’aria aperta, tra i binari 18 e 19, appena fuori dalla tettoia della stazione.

E la volete sapere la cosa più tremenda e ridicola di tutta questa faccenda? Sul fondo dell’ascensore che vedete qui sotto c’è ancora un cartello su cui c’è scritto:

VIETATO TRASPORTO PERSONE

L’ascensore montavagoni

Era stato messo all’epoca del trasporto merci perché gli operai non si attaccassero ai vagoni per salire più in fretta al piano di sopra: lo spazio era stretto e rischiavano di finire schiacciati dalle pareti. Ma dal 1943 fu proprio quella la funzione di questo elevatore: trasportare al livello della stazione ignari prigionieri che continuavano a gridare, ma non erano sentiti da nessuno perché troppo distanti dai comuni passeggeri.

Il Muro dei Nomi

Tra il 1943 e il 1945 dal “binario fantasma” della stazione di Milano, il cosiddetto binario 21, partono più di una ventina di convogli carichi di deportati politici e di ebrei. Tre sono le destinazioni italiane: i campi di Bolzano, di Verona e di Fossoli. E tre quelle straniere: i campi di Auschwitz-Birkenau, di Mauthausen e di Bergen-Belsen.

La penultima installazione del memoriale, il Muro dei Nomi, ricorda i nomi dei 774 deportati ebrei partiti da Milano in direzione di Auschwitz con i treni del 6 dicembre 1943 e del 30 gennaio 1944.

Il Muro dei Nomi

I nomi dei 27 sopravvissuti che riuscirono a evitare la camera a gas sono evidenziati. Tra questi c’è quello di Liliana Segre.

Una farfalla di pace

La storia di Liliana Segre è talmente bella che merita di essere raccontata dalla sua stessa voce. Vi consiglio, perciò, di leggere il libro Scegliete sempre la vita, in cui c’è il discorso che ha fatto a Lugano di fronte a centinaia di ragazze e ragazzi come voi.

Io mi limiterò a dirvi le cose che mi hanno colpito di più della sua storia.

Una bambina infilzata

Innanzitutto, quando nel 1938 fu espulsa da scuola a causa delle leggi razziali contro gli ebrei, Liliana aveva solo otto anni. E improvvisamente, ci dice, divenne invisibile per tutti, compresi i suoi compagni di classe. Poi scoppiò la guerra, e la situazione per gli ebrei peggiorò a tal punto che nel 1943 lei e suo padre, Alberto, provarono a scappare in Svizzera. Subito oltre il confine, però, furono fermati e condotti al comando del paese di Arzo. In attesa di incontrare l’ufficiale svizzero-tedesco che li rispedirà in carcere in Italia, Liliana ricorda di essersi fermata a osservare dei quadretti appesi alle pareti su cui erano infilzate delle farfalle con degli spilli. E lì per lì aveva pensato: “Non è che sono anch’io una farfalla infilzata?”.

Liliana Segre nel 1943 (© Wikimedia Commons).

Una ragazzina che vola

E in effetti Liliana nel 1943 è una farfalla di soli tredici anni che viene prima incarcerata e poi spedita come merce su un treno diretto ad Auschwitz. All’arrivo, viene strappata al padre, che non sopravvivrà, e messa a lavorare nella fabbrica del campo. Ma nonostante la fatica immensa e il trattamento da animale che riceve, Liliana riesce a resistere un anno e mezzo. Per questo dice:

Alla fine non sono stata la farfalla trafitta, ma quella che vola oltre il filo spinato, perché ho sempre voluto vivere […] Non solo io, anche tutte le mie compagne hanno scelto la vita, […] perché la vita va sempre scelta.

Una donna di pace

Poi, per fortuna, i nazisti comiciano a essere sconfitti su più fronti. E durante l’ennesimo trasferimento da un campo a un altro, i soldati tedeschi si tolgono le divise di fronte alle prigioniere e indossano gli abiti civili (comuni) per scappare in mezzo ai boschi.
Liliana ha sempre davanti agli occhi il comandante delle SS che abbandonò la pistola ai suoi piedi e, ancora oggi, quando conclude la propria storia, confessa che per un momento pensò di raccogliere l’arma per sparargli. Non lo fece perché scelse di non essere come lui, perché scelse la vita, come una farfalla libera, una farfalla di pace. E così ha continuato e continua a essere anche oggi.

Una nonna senatrice

È per questo che il 19 gennaio 2018, anno dell’ottantesimo anniversario delle leggi razziali, il nostro presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, l’ha nominata senatrice a vita per “altissimi meriti nel campo sociale”.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e la senatrice a vita Liliana Segre (© Wikimedia Commons)

Il Luogo di Riflessione

Pier, ma non eravamo partiti da una domanda? Bravi! Sia per esservelo ricordato, che per essere arrivati fino a qui.

Come funziona la memoria?

Continuavo a chiedermelo mentre la guida mi aveva condotto all’interno dell’ultima installazione del memoriale, il Luogo di Riflessione, uno spazio a forma di cono tronco nel quale il visitatore è invitato a restare un momento per pensare a quanto ha visto e sentito.

La barra dorata che punta verso Gerusalemme all’interno del Luogo di Riflessione

Mentre osservavo l’unico oggetto illuminato che c’è lì dentro, una barra dorata che è orientata verso la città di Gerusalemme, mi dicevo che, senza dubbio, la memoria passa per le parole, e raccontare il passato come fanno le guide del memoriale è fondamentale, ma mi sembrava che mi stesse sfuggendo qualcosa. Poi il silenzio, il buio e il freddo che sentivo in quel momento mi hanno aiutato. Sì, mi hanno aiutato a capire che, prima di passare per il cervello, la memoria passa per il corpo. E un memoriale è un luogo speciale proprio per questo: perché ti fa provare con i tuoi stessi sensi quello che provavano le persone che sono passate di lì.

È in quell’istante che da sopra la mia testa, improvvisamente, è arrivato il tu-tum tu-tum tu-tum di un treno in partenza.

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Salvo dove diversamente indicato, tutte le immagini sono © Pier Giulio Tongiani.